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Bucci e i servizi pubblici

11/10/2017

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Il canto del Grillo 1

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Mantenere totalmente pubbliche le aziende che gestiscono rifiuti e trasporti pubblici è stato uno dei primi atti della maggioranza di destra che gestisce Genova, dopo 72 anni.

E' positivo: se fosse andata in porto l'operazione sponsorizzata dal centro sinistra di Marco Doria (PD, Sel, lista Doria) oggi ci troveremmo Amiu - rifiuti in mano alla multiutility Iren (con forte presenza bancaria e di fondi speculativi) e AMT- trasporto pubblico in braccio a BusItalia dell'area del premier Renzi.

Rimane da capire se la mossa della Maggioranza Bucci sia convinto sostegno alla gestione pubblica dei servizi (non emerso durante gli ultimi 10 anni di consiglio comunale) oppure scelta pragmatica di concentrare i propri "cannoni" contro i poveri, non inimicandosi il consistente mondo dei dipendenti di Amt e Amiu.

In ogni caso, fosse andata in porto la politica di Pd e satelliti, sarebbe stato molto difficile invertire la rotta, visto i contratti firmati da cui si sarebbe rescisso con pesanti penali.

Per quanto riguarda il trasporto pubblico, la giunta e, in particolare il griffato assessore alla mobilità Stefano Baleari, è impegnata a sostenere il trasporto privato in centro città (ultima notizia 700 posti per moto in piazza Caricamento, scelta che rafforza l'incentivo all'uso di mezzi inquinanti costituito dalla diminuzione del costo dei parcheggi a rotazione nel centro città).
Particolarmente interessante è il silenzio delle associazioni ambientaliste che, invece, avevano meritoriamente svolto un ruolo sulla questione negli anni scorsi.

Niente tariffazione puntuale della raccolta dei rifiuti, invece per quanto la politica dei materiali post-consumo.
La Giunta, con l'ex alfaniano Matteo Campora, intende procedere sulla via degli incentivi e degli sconti a chi pratica la raccolta differenziata, ma non pare che sia questa la strada per abbattere i costi e combattere la produzione dei rifiuti stessi.

Sarebbe interessante approfondire la scelta dell'elogio dell'incompetenza in campo culturale e  quella dell'assenza nel settore sociale, che caratterizzerebbero i primi mesi della giunta Bucci, insieme alle più scontate campagne anti-poveri e pro-cemento.
Ma di questo parleremo un'altra volta.

"Il canto del grillo può dividere le coscienze: c’è chi lo ama, perché lo rilassa e gli permette di ritrovare la pace con se stesso, senza dimenticare che ci fa venire in mente le calde serate estive, e c’è chi, invece, proprio non lo sopporta e non vede l’ora di avere le finestre chiuse per non doverlo più sentire."



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La crisi del progetto bolivariano e dei governi «progressisti»

6/10/2017

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Socialismo del XXI secolo. L’intensificazione del modello estrattivo è oggi il tratto caratterizzante dell’azione di governi come quello venezuelano, quello ecuadoriano o quello boliviano

Il Venezuela continua a fare notizia a livello globale, ad esempio per le inquietanti (per quanto grottesche) minacce lanciate contro il governo bolivariano dal presidente statunitense Donald Trump nel suo intervento all’assemblea generale delle Nazioni Unite.
D’altro canto, dopo l’elezione dell’Assemblea costituente la situazione interna al Paese sembra essere per molti versi cambiata, anche per via del modo in cui viene gestito da Maduro il prossimo passaggio delle elezioni regionali.
La divisione della destra venezuelana (una destra strutturalmente autoritaria, razzista e tendenzialmente golpista) è comunque una buona notizia.
Ma non è su questo piano che si colloca il nostro intervento.


A noi interessa ragionare su quella che ci sembra in ogni caso una crisi profonda del progetto bolivariano, da inserire all’interno di una più generale crisi dei governi «progressisti» latinoamericani degli ultimi quindici anni: di quei governi che hanno rappresentato un punto di riferimento importante per la sinistra e per i movimenti sociali in molte parti del mondo (inclusa l’Europa) e che erano sembrati definire un orizzonte privilegiato al cui interno mettere alla prova una teoria e una pratica per la trasformazione sociale nel XXI secolo.

SIAMO BEN LUNGI dal negare, da questo punto di vista, l’importanza della stessa esperienza venezuelana.
Quel che ci è parso di intravedere nei primi anni del «chavismo» è stata anzi una lucida comprensione di un duplice problema, che in forme diverse si è presentato a tutti i governi «progressisti» della regione: da una parte la conquista del governo attraverso le elezioni significava occupare una posizione di vertice all’interno di una struttura istituzionale dello Stato caratterizzata storicamente dal dominio dell’oligarchia e da processi di lunga durata di esclusione della grande maggioranza dei settori «popolari» e subalterni; dall’altra l’economia del Paese ruotava interamente attorno alla rendita petrolifera, controllata da una ristretta élite all’interno di precise geografie imperiali.


A FRONTE di questi problemi, il tentativo che è stato effettuato è stato quello di costruire – attraverso le misiones – forme di potere popolare all’esterno della struttura dello Stato, agganciandole a esperienze di auto-organizzazione e auto-governo già esistenti per sviluppare politiche sociali innovative e radicali, ad esempio nel campo dell’istruzione e della salute.
Al tempo stesso si poteva pensare che questo consolidamento di organismi di contro-potere (in particolare nella forma di consigli comunali e comunas), per quanto ancora finanziato attraverso la rendita petrolifera, determinasse le condizioni per una trasformazione e diversificazione del «modello di sviluppo» – nonché delle stesse istituzioni dello Stato.
​Occorre riconoscere che questo non è avvenuto, ed è qui che va individuata l’origine della crisi (di capacità di innovazione, in primo luogo) del processo bolivariano.


GIÀ PRIMA della morte di Chavez (in particolare dopo la fondazione del Psuv nel 2007) alcuni elementi di questa crisi hanno cominciato chiaramente a manifestarsi: le caratteristiche di accentramento dell’economia petrolifera si sono rispecchiate in una rinnovata centralità del rapporto partito – Stato, a discapito delle esperienze autonome che erano fiorite negli anni precedenti.

Sia i tratti «autoritari» che caratterizzano stile e pratica dell’attuale governo venezuelano (tra l’altro con un ruolo sempre più pronunciato dei militari) sia la formazione di quella che viene definita una «boliborghesia» derivano precisamente da questo nesso tra la continuità di un modello di sviluppo «estrattivista» e il tentativo di governarlo a partire dalla centralità dello Stato.

SI TRATTA, COME già accennato, di un problema che – sia pure in forme di volta in volta peculiari – si è presentato in tutte le esperienze dei governi «progressisti» latinoamericani degli ultimi anni (e che le retoriche del «socialismo del XXI secolo» o del «populismo di sinistra» non sono certo sufficienti a nascondere). Identificare questo problema non significa per noi liquidare queste esperienze. La continuità di lungo periodo del modello estrattivo e il suo collegamento con una politica centrata attorno allo Stato – in particolare con il progressivo allentamento dei processi di integrazione regionale che proprio Chavez aveva tra gli altri contribuito ad avviare – hanno tuttavia finito per svuotare di contenuti innovativi e in ultima istanza per indebolire i governi «progressisti». Un ruolo significativo, in questo senso, è stato giocato anche da una lettura della crisi finanziaria del 2007/8 semplicemente come un’«opportunità».

SE QUESTO poteva effettivamente avere senso in termini «tattici», sul breve periodo, nel corso di questo decennio il rallentamento della domanda asiatica (che aveva rappresentato una leva essenziale per i governi «progressisti») e le violente oscillazioni dei prezzi delle commodities hanno presentato anche in America Latina il conto della natura «globale» della crisi.

L’INTENSIFICAZIONE del modello estrattivo costituisce oggi il tratto caratterizzante dell’azione di governi come quello venezuelano (ne ha parlato anche su queste pagine Edgardo Lander a proposito del progetto dell’«Arco minero del Orinoco»), quello ecuadoriano o quello boliviano.

IN QUEST’ULTIMO caso, le lotte autonome «popolari e indigene» che avevano creato le condizioni per l’ascesa di Evo Morales alla presidenza si indirizzano in buona misura contro il suo governo – ad esempio nel caso della costruzione dell’autostrada attraverso il territorio indigeno del TipNis. Anche in questo caso la capacità di innovazione politica del governo di Morales appare drasticamente ridotta, mentre su scala latinoamericana gli sviluppi interni a due Paesi così importanti come il Brasile e l’Argentina minacciano di definire una tendenza alla restaurazione neoliberale per la regione nel suo complesso.

ANCHE IN QUESTO CASO ci sono significative differenze da tenere presenti – a partire dal fatto che il governo di Macri in Argentina ha una legittimità elettorale che manca a Temer in Brasile. Ma la cornice generale al cui interno si muove la nuova destra latinoamericana è sufficientemente chiara: rilancio dell’indebitamento pubblico, nuovo allineamento con gli Stati Uniti in politica estera, feroce aggressione al potere di acquisto dei salari e radicale riforma in senso neoliberale del diritto del lavoro. All’interno di questa cornice non viene certo meno la spinta all’intensificazione dell’estrattivismo, con la moltiplicazione di conflitti di volta in volta più violenti, né viene messo in discussione quel processo di finanziarizzazione dei consumi popolari che proprio i governi «progressisti» avevano avviato attraverso un’efficace articolazione tra sussidi statali e indebitamento privato. Politiche centrate sulla «sicurezza», al contempo, fanno della violenza una vera e propria forma di governamentalità, in particolare all’interno dei territori «periferici» (tanto metropolitani quanto rurali) – spesso intrecciandosi a manifestazioni di violenza privata in un continuum che nei fatti non prevede più alcun momento di mediazione.

IN QUESTA SITUAZIONE siamo convinti che a poco serva opporre al «neoliberalismo» una qualche riedizione del «populismo di sinistra» o la retorica del «socialismo del XXI secolo». Può certo essere necessario difendere questo o quel governo «progressista» dagli attacchi della destra.

MA UN NUOVO orizzonte strategico per una politica radicale in America Latina può sorgere soltanto (come del resto è accaduto con le grandi lotte di inizio secolo) dai movimenti che oggi si battono contro un modello di sviluppo che dissemina violenza nei territori e contro una riorganizzazione dei rapporti di lavoro, delle forme di vita, del nesso tra produzione e riproduzione all’insegna della precarietà. Dalle straordinarie mobilitazioni femministe degli ultimi due anni (capaci di reinventare lo strumento dello sciopero) ai conflitti legati all’estrattivismo, dalle nuove lotte indigene alle mobilitazioni sindacali e studentesche in Paesi come l’Argentina, il Cile e il Brasile questi movimenti interpretano comportamenti e immaginari sociali diffusi – in qualche modo incorporando nelle loro premesse alcune conquiste della stagione dei governi «progressisti». Soprattutto, in ogni caso, cominciano a definire nuove forme di lotta, nuovi strumenti di organizzazione e un nuovo vocabolario politico, all’altezza delle sfide del presente.

Verónica Gago, Sandro Mezzadra
IL MANIFESTO 23.09.2017licca qui per modificare.
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Solo il carbonio vivo salverà la terra

6/10/2017

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Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo smettere di estrarre carbon fossile, che va lasciato sotto terra, e rigenerare piante e suoli.

Fra l’estinzione e la fuga su altri pianeti abbiamo una terza via: sopravvivere prendendoci cura di Madre Terra.

Negli Stati indiani di Assam, Bihar e Uttar Pradesh le inondazioni hanno provocato 41 milioni di sfollati e ucciso circa 500 persone; a Houston e Mumbai hanno paralizzato ogni attività.
È sempre più evidente che non stiamo vivendo all’interno dei limiti ecologici del nostro pianeta, e che per le nostre continue violazioni delle leggi della Terra, essere vivente, subiamo pesanti conseguenze.

Quest’anno si susseguono immagini di inondazioni estreme; l’anno scorso è stata la siccità a essere estrema ed estesa.
Quando distruggiamo i sistemi climatici della Terra, che si autoregolano, arriviamo al caos, all’incertezza climatica, a cambiamenti imprevedibili ai quali pensiamo di sfuggire con la geo-ingegneria e l’ingegneria genetica.


I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano.
Non sono ingegnerizzati.

Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dei combustibili fossili, l’era dell’industrialismo e del meccanicismo.
​E la dottrina secondo la quale ogni fenomeno naturale, compresi la vita e il pensiero, possono essere spiegati sulla base di processi meccanici e chimici.


Negli ultimi 200 anni una piccola parte dell’umanità ha inquinato il pianeta, a causa di un’economia alimentata da carbone, petrolio e gas, e di un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico.
L’inquinamento dell’atmosfera ha sconvolto i sistemi e l’equilibrio climatico. La distruzione degli habitat e la diffusione delle monocolture hanno contribuito a quello che gli scienziati chiamano la Sesta estinzione, la sparizione della biodiversità a un ritmo che è mille volte quello naturale.

Mangiamo, beviamo, respiriamo petrolio.
L’estrazione di combustibili fossili (carbonio morto) dal suolo, la loro combustione e le emissioni incontrollabili in atmosfera portano alla rottura del ciclo del carbonio e in questo modo alla destabilizzazione dei sistemi climatici.
Come sottolineano Steve McKevitt e Tony Ryan (in Project Sunshine), tutto il carbone, il petrolio e il gas naturale che estraiamo e bruciamo si sono formati oltre 600 milioni di anni fa. Bruciamo ogni anno 20 milioni di anni di natura.
Il ciclo del carbonio è spezzato. Noi lo abbiamo spezzato.

La dipendenza dal carbonio fossile, morto, induce anche scarsità di carbonio vivo, con la conseguente diminuzione della disponibilità di cibo per gli umani e per gli organismi del suolo. Una scarsità che si traduce in malnutrizione e fame da una parte e desertificazione del suolo dall’altra. L’agricoltura chimica intensifica gli input di sintesi e il capitale, riducendo la biodiversità, la biomassa e il nutrimento che i semi, il suolo e il sole possono produrre.

Per fissare più carbonio vitale, abbiamo bisogno di intensificare biologicamente le nostre fattorie e le nostre foreste, in termini di biodiversità e biomassa. La biodiversità e la densità di biomassa producono più nutrimento e più cibo per ettaro (come abbiamo mostrato nel rapporto di Navdanya intitolato Health per Acre – Salute per ettaro), affrontando così il problema della fame e della malnutrizione. Ma aumentano anche (e non solo) il carbonio vitale nel suolo, e tutti gli altri nutrienti, insieme alla densità degli organismi benefici.

Più facciamo crescere la diversità e la biomassa, più le piante fissano il carbonio e l’azoto atmosferici, e riducono sia le emissioni che la quantità di sostanze inquinanti in atmosfera. Il carbonio viene restituito al suolo attraverso le piante. Ecco perché è davvero stretto il legame fra biodiversità e cambiamenti climatici.

Più si intensificano la biodiversità e la biomassa delle foreste e delle fattorie, più materia organica è in grado di ritornare al suolo, invertendo il trend verso la desertificazione che è la prima causa degli spostamenti di popolazione e dello sradicamento delle persone, con la creazione di ondate di rifugiati (si veda il manifesto di Navdanya Terra viva: Our Soils, Our Commons, Our Future).

Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo tornare ai semi, al suolo, al sole, aumentare il carbonio vivo nelle piante e nei suoli. Dobbiamo ricordare che il carbonio vivo dà vita, mentre il carbonio morto distrugge i processi della vita. Così, con le nostre cure e la nostra consapevolezza, possiamo accrescere il carbonio vivo sul pianeta e il benessere di tutti. Invece, più sfruttiamo e usiamo carbonio morto, più inquinamento produciamo e meno avremo per il futuro. Il carbonio morto deve essere lasciato sottoterra. È un obbligo etico e un imperativo ecologico.

Ecco perché il termine «decarbonizzazione» – senza distinzione fra il carbonio vivo e quello morto – è scientificamente ed ecologicamente inappropriato. Se decarbonizziamo l’economia, non avremo piante, che sono carbonio vivo, non avremo vita sulla Terra. Vita che crea carbonio vivo e ne è alimentata. Un pianeta decarbonizzato sarebbe un pianeta morto.

Dobbiamo ricarbonizzare il mondo con carbonio vivo. Dobbiamo decarbonizzare il mondo relativamente al carbonio morto.
Quando creiamo più carbonio vivo attraverso l’agroecologia e l’agricoltura organica, abbiamo più suoli fertili che producono più cibo e trattengono più acqua, aumentando dunque la resilienza di fronte a siccità e inondazioni. L’agricoltura biologica ad alta intensità di biodiversità produce più cibo e più nutrienti per ettaro. Garantendo servizi ecologici e il controllo degli agenti infestanti, permette di fare a meno degli input di sintesi, dei veleni, evitando anche i debiti contratti per acquistarli, la principale causa di suicidio fra gli agricoltori. I redditi agricoli possono aumentare di dieci volte se si abbandona la dipendenza da input chimici costosi e dalla coltivazione di derrate i cui prezzi continuano a scendere.

Far crescere cibo vero a zero costi è la strada verso il secondo degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Onu: fame zero.
I combustibili fossili, la strada verso la conquista, ci hanno portati alla crisi che l’umanità è ora costretta ad affrontare.
Crediamo di essere al di fuori e al di sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo. I combustibili fossili ci hanno consentito l’illusione di non dover vivere entro i limiti, le frontiere e i processi ecologici del nostro pianeta.

Ma ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite.

Ormai la minaccia alla stessa sopravvivenza umana è riconosciuta, ma continua a non essere messa in relazione con la violenza contro la Terra, e non giunge alla conclusione che dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la Terra.

Stephen Hawking ha lanciato l’allarme: entro 100 anni, per sopravvivere dovremo lasciare la Terra e trovare altri pianeti. Non ci sarebbero che due opzioni: l’estinzione o la fuga.

Questo escapismo è al tempo stesso una dichiarazione di irresponsabilità (rispetto al prendersi cura della Terra) e di tracotanza tecnologica. È un’arroganza cieca rispetto al fatto che alcuni umani hanno spezzato i fragili processi ecologici che mantengono e riproducono la vita sulla Terra. È il rifiuto di riconoscere il dovere ecologico di chiedere scusa alla nostra Madre, smettere di danneggiarla, dedicare il nostro amore e la nostra intelligenza a lenirne le ferite, un seme alla volta, un giardino alla volta.

Se abbandoniamo l’arroganza tecnologica antropocentrica, di Padroni e Conquistatori, riconoscendo con umiltà che siamo membri della famiglia della Terra, possiamo, con i semi, il suolo, il sole, rigenerare il pianeta e il nostro futuro.

A differenza di Hawking, fra l’estinzione e la fuga vedo una terza possibilità: rimanere, curare, difendere la nostra casa.
Rimanere a casa, proteggere e rigenerare i sistemi viventi e i processi vitali della Terra, è un dovere etico ed ecologico.   

Vandana Shiva
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